Giovani in mare aperto, i nuovi professionisti dell’acquacoltura

Acquacoltura Giovane

Il mare aperto, sfida e opportunità per le giovani generazioni dell’acquacoltura che qui trovano nuovi percorsi professionali, spazio per innovare e compiti con cui contribuire a sviluppare un nuovo modello di produzione di pesce, soprattutto in un mercato, come quello italiano, in cui la qualità è l’unica strada per emergere da un contesto competitivo, con l’80% di spigole e orate che provengono dall’estero. Il tutto mentre le nuove frontiere della ricerca, dell’automazione e del digitale trasformano un lavoro tradizionale chiamato ad aggiornarsi in fretta.

Un esempio? «I brevetti e i patentini per le attività subacquee. Finora erano un plus, in quanto gli operatori dell’acquacoltura sono considerati alla stregua degli agricoltori. Ora dalle Capitanerie di porto qualcosa si è mosso e le aziende si stanno mettendo a norma per affrontare un lavoro sempre più complesso», spiega Giorgio Biasin, 24 anni, un percorso formativo con qualche inciampo, uno dei quali gli ha permesso di scoprire l’attività della Civita Ittica di Piombino durante l’estate in attesa di ripetere la quinta al liceo. Una folgorazione. La voglia di fermarsi. Il papà che lo invita a terminare gli studi. A 19 anni inizia il suo cursus honorum, fino a dedicarsi alla pesca. Nel mentre tanta gavetta e formazione: «Anche in questi giorni sono a Roma per prendere il brevetto come Ots – Operatore tecnico subacqueo», racconta al telefono con orgoglio Biasin. Una sensazione ben lontana da quella dei banchi di scuola: «Mi sento destinato a questo tipo di lavoro. Senza l’acqua non potrei stare ora, certo, d’inverno a volte ti chiedi “ma chi me l’ha fatto fare?”, ma poi ti rendi conto che fai parte di un sistema in cui puoi concretamente fare la tua parte per salvaguardare il mondo, le generazioni successive e i pesci. L’acquacoltura è una risposta alla crescente richiesta di un metodo produttivo sostenibile. Tocca poi ai consumatori capirlo fino in fondo», conclude Biasin.

Del rapporto con i clienti si occupa Luca Cò che, dopo una laurea in ingegneria meccanica e 4 anni in Fincantieri a 30 anni ha deciso di tornare nell’azienda di famiglia creata dal padre. Il motivo di questa scelta? «La classica dinamica da azienda famigliare. Dopo l’avvio della società, con il raddoppio avvenuto lo scorso anno quando ci siamo assicurati uno spot in Sardegna che si aggiunge a quello storico di Lavagna, la produzione è aumentata e anche la complessità. Con queste motivazioni sono subentrato con l’obiettivo di trainare la digitalizzazione interna e aggiornare il rapporto con i clienti», racconta . Un passaggio di consegne ancora in corso in cui ha avuto un suo peso anche il richiamo di una vita diversa: «Rispetto al lavoro di prima, ora ho una routine più omogenea», ammette Luca. Anche se le priorità professionali sono cambiate: «Il focus  è sul prodotto,  posizionamento di prezzo, marketing e strutturazione cataloghi, aumento della brand awarness. Per anni la maricoltura si è concentrata sul garantire la produzione, adottando anche tecnologie costose da mantenere. Ora la sfida è un’altra: stabilire una volta per tutte che l’acquacoltura è il miglior metodo per creare proteine animali di prima qualità con il minor impatto ambientale». Soprattutto per i clienti più giovani: «La speranza è che le nuove generazioni di consumatori siano più sensibili ai temi dell’origine e della sostenibilità delle risorse ittiche alimentari. Il rischio è che questa propensione venga erosa dall’inflazione e dall’aumento dei prezzi», afferma . Una prospettiva che rischierebbe di far venir meno gli sforzi verso una transizione alimentare che fa bene al Pianeta.

Affinità di intenti  anche  per Giuseppe Santamaria, 32 anni, seconda generazione impegnata nell’azienda ittica di famiglia in Puglia e laureato in medicina veterinaria. A lui il compito di vegliare sul patrimonio di famiglia: un allevamento di spigole e orate in mare aperto di fronte al Gargano avviato negli anni ’90 dal padre. «Rispetto a quanto fatto finora, ciò su cui mi concentrando è l’adozione di un approccio più scientifico all’acquacoltura, con un maggiore focus sull’alimentazione così da evitare sprechi e ridurre il ricorso ad antibiotici. Vantaggi sanitari che si trasformano in vantaggi commerciali», sottolinea Santamaria. Aspetti che potrebbero far leva sul consumatore: «Spesso e volentieri l’allevamento ittico viene visto ancora negativamente dal consumatore, per via dell’ambiente in cui cresce il pesce, e dalla comunità che lo vede come un intralcio soprattutto alle attività turistiche. Ma stiamo parlando di un processo quasi naturale che non ha eguali in altri settori zootecnici», aggiunge Santamaria. I gap informativi che diventano anche barriere di ingresso per chi vuole avvicinarsi al settore: «Per far avvicinare un giovane al settore bisognerebbe riuscire a promuoverlo come opportunità, al di là della prossimità famigliare a questo tipo di attività imprenditoriale», conclude Santamaria.

Foto Copertina @ISPRA

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